Assalto a Fort Knox: L’oro di chi è?
BREVI CENNI STORICI SU BANCA D’ITALIA
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Con la legge nr. 449 del 10 Agosto 1893, dalla fusione del Banco di Napoli e di Sicilia nacque un nuovo Istituto di emissione monetaria, che prenderà il nome Banca d’Italia. Confluirono in detto istituto le riserve auree appartenenti alle banche, ivi assorbite, per un ammontare pari a circa 70 tonnellate d’oro.
Nel 1926 Banca Italia ottiene il monopolio dell’emissione monetaria e nel decennio successivo le fu attribuita la veste di Istituto di diritto pubblico[1].
In via preliminare chiariamo il significato della locuzione “istituto di diritto pubblico”. Essa è ben lungi dal caratterizzare la proprietà della Banca da parte dei cittadini italiani. L’espressione, nell’accezione predicata dal nostro ordinamento giuridico, ha il fine di sottolineare che la funzione dell’attività creditizia da essa esercitata coincide con un interesse di rilievo pubblico. Per lo stesso motivo essa è assoggettabile a specifiche normative pubblicistiche, le quali ad esempio ne escludono l’assoggettabilità alla procedura di fallimento. In seguito alle alterne vicende legate alla guerra, ai trasferimenti in capo alla BRI (Banca Regolamento Internazionale) e alle asportazioni da parte dei nazisti, le riserve passarono dalle 561 tonnellate d’oro del 1933 a 22 tonnellate, con successivi rimpinguamenti in seguito al cessare delle ostilità.
Negli anni del dopoguerra, grazie al boom economico, le riserve auree accrebbero notevolmente giungendo sul finire del 1958 a 244 tonnellate.
CHI E’ IL PROPRIETARIO DELL’ORO DI BANCA D’ITALIA?
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In questi giorni assistiamo al riaccendersi del dibattito intorno alla proprietà delle riserve (oro e valute straniere) di Palazzo Koch. Premesso che malgrado l’importanza del tema non esiste sul punto una norma chiarificatrice né nello Statuto di Banca d’Italia e né in altre leggi successive, non resta che posare occhio sui cosiddetti fatti concludenti e alle risultanze contabili che come da legge hanno valore di prova fino a querela di falso. A nostro avviso occorre affrontare la questione sotto un duplice aspetto:
a) In punto di fatto rileviamo quanto segue: sul sito di Bankitalia campeggia la seguente dichiarazione:
In base a quanto pubblicato dal sito risulta ad oggi il trasferimento a titolo di proprietà delle riserve, ivi compreso l’oro, da Banca d’Italia in favore dell’Eurosistema. Contestualmente a tale fatto, come si legge si è provveduto a iscrivere come contropartita il relativo diritto di credito che viene annualmente remunerato.
In questo preciso momento storico, dunque, parrebbe corretto affermare che le riserve non appartengono né a Banca d’Italia né tantomeno allo Stato italiano. Tale interpretazione sembrerebbe rafforzata dall’iniziativa di legge nr. 1064 del 6 Agosto 2018, avanzata da Lega, volta a richiedere un’interpretazione autentica del DPR del 31 Marzo 1988 n.148. In altre parole, si richiede una pronuncia ufficiale che dichiari la proprietà delle riserve in capo allo Stato. Va da sé che, se la questione fosse pacifica, non occorrerebbe un tale intervento.
Occorre a questo punto analizzare il percorso normativo che ha portato alla situazione attuale per meglio inquadrare la questione.
Pertanto:
b) In punta di diritto si rileva che:
-In seguito alla legge bancaria del 1936 emanata con R.D n. 375 dello stesso anno. Palazzo Koch viene investito dell’insegna di istituto di diritto pubblico:
art. 20 <La Banca d'Italia, creata con la legge 10 agosto 1893, n. 449, è dichiarata Istituto di diritto pubblico. Il capitale della banca è di trecento milioni di lire ed è rappresentato da trecentomila quote di mille lire ciascuna, interamente versate. Ai fini della tutela del pubblico credito e della continuità di indirizzo dell'Istituto di emissione, le quote di partecipazione al capitale sono nominative e possono appartenere solamente a: a) Casse di risparmio; b) Istituti di credito e banche di diritto pubblico; c) Istituti di previdenza; d) Istituti di assicurazione>.La norma è chiara nell’escludere la partecipazione di soggetti privati al capitale dell’Istituto di emissione. La ratio risiede nell’intento di garantire la fondamentale funzione del credito, armonizzandolo con l’interesse nazionale ed escludendone un’eventuale “scalata” ostile. In vista della maggiore competitività richiesta dall’imperante globalizzazione, nonché del dogma dell’internazionalizzazione del tessuto economico, la legge bancaria del ’36 unitamente alla legge n.141 del 7 marzo 1938, viene implicitamente abrogata e superata dalla Amato-Carli nr. 218/1990.
A partire da quel momento si inaugurò il modello bancario di Società per Azioni, superando altresì la divisione tra banche commerciali e di investimento. Di tal fatta si permetterà a banche e fondazioni di assumere partecipazioni in imprese commerciali o industriali, realizzando una commistione potenzialmente distruttrice del tessuto commerciale italiano. È così che Banco di Sardegna, Banco di Sicilia, Monte Paschi di Siena (solo per citarne alcuni), anche grazie a un sistema di incentivi fiscali, assunsero la forma giuridica di S.p.A. Si apre la stagione di acquisizioni, fusioni, concentrazioni che porterà alla graduale scomparsa delle casse di risparmio, dei piccoli istituti e con essi alla moria di aziende piccole e medie, da sempre cuore pulsante dell’economia italiana. Nel 1998 Banca d’Italia entra nel circuito del Sistema Europeo delle Banche Centrali (SEBC), estromettendo definitivamente ogni controllo nazionale (d.lgs n 43/1998). La legge Ciampi dello stesso anno n.461 farà il resto escludendo le fondazioni bancarie dal controllo delle banche stesse.
Occorrerà attendere il 2005 per tentare di salvare il salvabile, attraverso l’intervento legislativo del n. 262 a firma del Ministro Tremonti. La cosiddetta Legge sul Risparmio prevedeva di ricondurre Banca d’Italia sotto un maggiore controllo statale.
art. 19 c.10. <Con regolamento da adottare ai sensi dell’articolo 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400, è ridefinito l’assetto proprietario della Banca d’Italia, e sono disciplinate le modalità di trasferimento, entro tre anni dalla data di entrata in vigore della presente legge, delle quote di partecipazione al capitale della Banca d’Italia in possesso di soggetti diversi dallo Stato o da altri enti pubblici>.Essa rimarrà purtroppo lettera morta, adducendo la necessità di salvaguardare l’indipendenza dell’Istituto di Via Nazionale[2].
Giungiamo a quando il provvedimento di legge a firma Prodi-Schioppa modificò l'art. 3 dello Statuto di Bankitalia. Da quella data decade, anzi scompare, l'obbligo di detenzione della maggioranza del capitale sociale di Bankitalia, da parte di enti pubblici[3];[4].
Ancora la legge 5 del 29 gennaio 2014, dove vengono rivalutate le partecipazioni alla Banca d’Italia (passando da 156.000 a 7.500.000.000 di euro). Viene fissato il limite al 3 per cento della quota detenibile da ciascun partecipante e limite al 6 per cento del capitale per i dividendi. Ciò favorì l’atomizzazione della detenzione delle quote di partecipazione. È così che Banca d’Italia assumerà le vesti di public company, caratterizzata da un azionariato diffuso[5].
Tale modello provocherà uno scollamento tra dirigenza, amministrazione e titolari delle quote azionarie.
La carrellata legislativa che ha portato a ridisegnare l’assetto finanziario ed economico del Belpaese è di ampio respiro. Dunque per affermare la proprietà delle riserve in capo allo Stato occorrerebbe affrontare lunghe e difficili cause legali, oppure tentare la via della rinegoziazione diplomatica.
Ma esiste a nostro parere anche un’altra questione. Nonostante molte voci ripetano che in passato l’Italia aveva la sovranità monetaria, tale fatto non corrisponde a verità. Invero, la nostra Costituzione è generica su tale punto. Essa si preoccupa di normare minuziosamente la tripartizione di pubbliche funzioni posta a base dell’impianto democratico, ma non è altrettanto solerte circa la funzione di battere moneta, facendo solo un vago riferimento alla questione:
art. 47 Cost: <La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito>
La mancata articolazione che meriterebbe un tema tanto importante non è stata una svista o una leggerezza. In sede di Assemblea Costituente è stato infatti espressamente dibattuto un emendamento a firma dell’Onorevole Romano nel quale si richiedeva l’autorizzazione del Parlamento a battere moneta. Un’autorizzazione che quindi ha origine nella convenzione legislativa creata grazie all’assenso dei cittadini e per lo stesso motivo non necessita di riserva, a meno che non si intenda costruire un sistema di pesi e contrappesi che imponga un leader mondiale a scapito delle altre Nazioni. Va da sé che se tale è il modello proposto è chiaro che il vero sovrano non è il cittadino, come vorrebbe la Carta Costituzionale, ma un ristretto gruppo dirigenziale. Dunque lo scenario fin qui esaminato è destinato a ripetersi.
Ebbene questo emendamento non fu accettato. Tali considerazioni ci portano a un interrogativo fondamentale, ossia: una Nazione che non ha sovranità monetaria in quanto le viene impedito di legiferare in merito, avrebbe potuto scongiurare il decorso legislativo che abbiamo visto? Avrebbe potuto evitare, nell’ambito di un sistema debitorio, che ogni piccola precedente conquista venisse poi svenduta? A questo punto le eventuali richieste e relative indagini processuali sono lungi dall’avere un esito certo e incontrovertibile.
Allo stato dei fatti non ci resta che auspicare una trattativa che rimetta in discussione il sistema monetario nazionale e internazionale affinché davvero si giunga a una sovranità del popolo e una moneta libera da debito. Per fare ciò occorre tenere distinto il momento dell’emissione monetaria, che è una pura convenzione e che perciò non può emettersi a debito, e la fase della circolazione del denaro, conformemente a quanto auspicato dal Prof. Giacinto Auriti, depositario di una proposta di legge ancora una volta dimenticata in un cassetto.
07.01.2019, per Scuola di Studi giuridici e Monetari Giacinto Auriti, Dott.ssa Sara Lapico
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