Il giudice Barra Caracciolo punta il dito sulla Corte Costituzionale
Pubblichiamo l'intervista che Cesare Sacchetti fece a novembre del 2014 al dott. Luciano Barra Caracciolo, Presidente della VI Sezione del Consiglio di Stato, che ha enunciato nel suo libro “Euro e (o?) democrazia costituzionale - La convivenza impossibile tra Costituzione e Trattati europei “ l’incostituzionalità dei Trattati europei, descrivendo l’inefficacia delle politiche di riduzione del deficit pubblico basate sul modello economico neoliberista caro alla Commissione Europea. Politiche che di fatto continuano a precipitare il Paese in una recessione ancora maggiore, con il Governo che puntualmente elabora previsioni di ripresa che fino ad ora non si sono mai realizzate.
Il dott. Barra Caracciolo evidenzia ed attualizza ciò che Auriti e il dott. Bruno Tarquini denunciarono pubblicamente sulla debolezza ( per noi immobilismo – ndr) della Corte Costituzionale nei confronti dell'Unione Europeae dei Trattati. Possibile che dell'incostituzionalità se ne accorgono magistrati come Barra caracciolo e Varone ma non se ne accorsero, e non se ne accorgono, quelli della Corte Costituzionale ?
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Dottor Barra Caracciolo, partiamo dalle previsioni d’autunno della Commissione Europea, secondo le quali l’Italia non raggiungerà il pareggio di bilancio nel 2017. Secondo la Commissione il disavanzo strutturale aumenterà dallo 0,9 % all’ 1%. Kaitanen, vicepresidente con delega alla crescita, agli investimenti, e all’occupazione sottolinea l’importanza di rispettare il Patto di Stabilità. All’Italia saranno chieste misure correttive? Se sì, di che tipo?
Parlare di decimali su indicatori come “disavanzo strutturale” e crescita, in relazione ai modelli economici utilizzati dalla Commissione è praticamente privo di senso. Le previsioni effettuate in base al loro modello economico si rivelano costantemente sbagliate. Questo perché muovono dal presupposto neo-liberista della “neutralità” del deficit pubblico, la cui riduzione sarebbe “espansiva” in base ad uno spiazzamento dal bilancio pubblico agli investimenti privati.
Un’autentica follia che dovrebbe portare a risposte ben più nel merito della sostenibilità delle politiche imposte da parte dei nostri responsabili economici. A parte che in presenza di saldi primari costanti e di dimensioni senza pari in Europa, e probabilmente al mondo, la sola ipotesi dello spiazzamento (quando l’onere degli interessi assorbe sia il disavanzo che lo stesso saldo primario in forma di trasferimenti, per di più in parte esteri) contrasta evidenze elementari, la vera preoccupazione non è tanto se ci chiederanno inevitabili misure correttive, quanto se il livello di recessione in cui ci troveremo anche con la manovra di stabilità attuale, non rispettosa del demenziale Patto di stabilità, possa tollerare politicamente e socialmente tali “misure”.
Ma il nostro governo accetta implicitamente tale modello di (de)crescita infelice, replicando in balletti di cifre e su modalità di copertura del tutto improbabili, e continua anch’esso, da quattro anni ormai, a sfornare previsioni errate di presunta uscita dalla recessione.
- Il ministro Padoan nella lettera di chiarimenti inviata a Bruxelles ribadisce un impegno del Governo a cedere asset pubblici per un 0,7% di Pil, pari a circa 11 miliardi di euro. L’obiettivo del Governo è quello di cedere Poste, ENAV, e Fs nel 2015. La logica per giustificare questo tipo di operazione, è quella di una riduzione del debito pubblico, anche se nelle precedenti dismissioni delle partecipazioni statali del 1992 gli effetti sulla riduzione furono minimi, al contrario si verificò un aumento del livello del debito. Quali saranno gli effetti di queste privatizzazioni e non si corre il rischio di affidare a monopoli privati la gestione di servizi pubblici fondamentali?
Su tale argomento ormai praticamente tutti continuano inutilmente ad evidenziare che la misura di abbattimento del debito-stock, è tale da non giustificare di privarsi di quote societarie che danno un flusso di profitti, cioè di entrate dello Stato, che sono ben superiori all’attuale onere “medio” dei titoli del debito in circolazione e anche in emissione. Che dire?Poi dovranno aumentare le tasse o tagliare i servizi; e questo dopo aver svenduto con intempestive cessioni in un momento di mercato sfavorevole per l’Italia.
Dagli anni’90 in poi con l’introduzione delle authority nell’ordinamento italiano, il controllo sulla concorrenza e sui prezzi è affidato a queste agenzie. I dati pubblicati nel 2013 dalla CGIA di Mestre parlano di un aumento generalizzato di quasi tutti i servizi, come le assicurazioni, l’acqua, il gas e la luce, lamentando una gestione di monopoli naturali in mano ai privati. Qual è il suo giudizio sull’operato delle authority e sulla privatizzazione dei servizi pubblici?
Sono due problemi separati: la logica delle Authority è quella UE, di negazione radicale dell’art.43 Cost., che è norma di rango costituzionale che riflette principi fondamentali dell’ordinamento democratico, e perciò risponde all’idea che monopoli naturali o, nella migliore delle ipotesi, situazioni di oligopolio, diverrebero “concorrenziali” se affidati ai privati anziché alle politiche tariffarie dei governi. Le Authority agiscono, facendo il possibile, sulla struttura di mercato che trovano e sul presupposto che l’idea di “forte competizione” ordoliberista, immaginata dai trattati, non abbia riscontro nella realtà. In situazione di (almeno) oligopolio la crescita dei prezzi superiore all’inflazione, la riduzione degli investimenti e dell’innovazione tecnologica, la compressione salariale e del livello di occupazione, sono praticamente una certezza.
La CGIA di Mestre, invece di fare le consuete lamentele, genericamente rivolte contro l’inefficienza pubblica (una vera ossessione), dovrebbe interrogarsi sulla “struttura” dei mercati privatizzati e sul perché, in tutta Europa, si registrino queste stesse conseguenze.
Quali strumenti giuridici ha in mano l’Italia per recedere dal Trattato di Maastricht? Secondo lei, è possibile invocare un recesso attraverso l’art.60 della Convenzione di Vienna, lamentando un inadempimento degli altri stati membri delle clausole del Trattato, come quella del 3% di deficit/PIL, più volte violata da Germania e Francia? E, infine, qual è lo scenario più praticabile?
Ho già ampiamente analizzato le violazioni plurime dei trattati, o, ad essere benevoli, l’evidente sopravvenuta disfunzionalità delle loro regole, che giustificherebbero un recesso “causale”, secondo la Convenzione di Vienna, per "inadempimento della controparte" (art.60: principio “inadimplenti non est adimplendun”) e per sopravvenuta impossibilità dell'esecuzione (art.61 c.d. clausola rebus sic stantibus, art.61). La questione è politica ma anche culturale: bisogna “voler” guardare agli effetti distruttivi di tali regole sulla realtà industriale e sociale italiana e “saperli” collegare ai principi codificati del diritto internazionale generale.
Entrambe queste operazioni, volitiva e cognitiva, non paiono essere oggetto di determinazioni delle autorità prese nell’interesse fondamentale della Nazione.
Nel suo saggio “ Euro e(o) democrazia costituzionale” lei sottolinea l’incompatibilità giuridica tra i trattati europei e la Costituzione. E’ immaginabile che la Corte Costituzionale possa esprimersi in tal senso su questa questione?
Mi “consenta” di essere sfiduciato su questa prospettiva, che pure propugno con l’indicazione di precisi percorsi, aderenti ai principi più importanti e immodificabili della Costituzione. Aggiungo: sfiduciato “ormai”, cioè…rebus sic stantibus.
Come ho altresì indicato , abbiamo pure un ostacolo enorme nella carenza di previsioni costituzionali sulla remissione diretta, e tempestiva, alla stessa Corte costituzionale. Quand’anche cioè disponesse delle “risorse culturali”, di raccordo tra diritto ed economia, menzionate alla risposta precedente.
Il precedente che viene spesso usato per descrivere un paragone con l’Euro a livello economico, è quello dello SME, dal quale l’Italia uscì nel 1992 dopo forti speculazioni finanziarie e con lo smantellamento delle partecipazioni statali. La transizione all’epoca fu gestita da un governo tecnico, il governo Amato. Andiamo incontro allo stesso scenario, con un’uscita dall’euro gestita da un governo tecnico?
Lo Sme è stato una prova generale, tutto sommato ben riuscita, visto che mentre falliva, e successivamente alla dimostrazione che senza il vincolo monetario l’Italia aveva rapidamente ripreso la competitività della sua produzione, ci siamo immediatamente prestati, senza dubbi e obiezioni, al rilancio della convergenza di Maastricht ed alla “irrinunciabile” entrata nell’euro.
E questo senza neanche considerare l’ipotesi, dibattuta consapevolmente nell’opinione pubblica, di un “opting out” o della conservazione indefinita dello status di “paese con deroga”, in cui si trovano comodamente, crescendo, gli unici paesi UE che non stanno nell’euro. Tutta l’UEM è alle prese con stagnazione, recessione e aumento vertiginoso del debito pubblico (anche in misure ben maggiori di quelle italiane)… Tranne la Germania: per ora…
Le situazioni emergenziali nella storia recente del Paese, vengono gestite da governi tecnici, espressione spesso di poteri finanziari e sovranazionali. Negli ultimi 3 anni in particolare sono al potere governi non espressione della volontà popolare con il ruolo del Capo dello Stato , avvicinatosi più a quello di una repubblica presidenziale. Si può ancora dire che l’Italia appartiene ad un contesto istituzionale democratico vicino ai dettami della Costituzione?
La risposta al quesito è in fondo già data dalle risposte precedenti. Quanto ad isolare i singoli episodi di governi tecnici da quelli presuntivamente politici, dipende dall’idea di “politica” che si vuole considerare conforme alla Costituzione. Se, come accade praticamente, (almeno), a partire dall’adesione a Maastricht, la sovranità democratica, - cioè la cura, da parte delle Istituzioni costituzionali di indirizzo politico, dei diritti fondamentali sociali caratterizzanti la nostra Repubblica - è subordinata al vincolo esterno, la politica perde la sua caratteristica natura di scelte libere nei fini, purché vincolate al rispetto dei principi fondamentali della stessa Costituzione.
Abbiamo cioè un unico pluriventennale governo tecnico che però decide essenzialmente a Bruxelles e senza tener conto dei principi e dei diritti fondamentali della Costituzione. Basti dire che i tedeschi, attraverso gli arresti (Urteil), Lutz, Solange e Lissabon, hanno praticamente subordinato tutte, indistintamente, le fonti “europee” al sindacato di compatibilità costituzionale preventivo, esercitato dalla loro Corte costituzionale su rinvio del parlamento (o anche di privati cittadini). E si valorizza il giudizio sovrano e insindacabile dello stesso parlamento sulla accettabilità e direzione della “integrazione europea”.