Riportiamo un articolo scritto su http://phastidio.net/2014/10/06/recessioni-fatte-in-casa-o-della-tafazzinomics/ in quanto è ben documentato con le fonti che dimostrano il fallimento della politica monetaria giapponese e le sue ripercussioni sulla vita dei nipponici. I dati riportati nei link confermano ancora una volta le ragioni della Scuola Auritiana nel diffidare di applicazioni di teorie economiche che non conoscono il concetto giuridico di moneta, il suo VALORE CONVENZIONALE, in quanto l'Economia conosce solo il CONCETTO CREDITIZIO di Moneta, quello dell'emissione in PRESTITO. Anche il neolinguismo porta a confondere le persone tra concetto di Sovranità Monetaria dello Stato e "Stato a Moneta Sovrana". In questa confusione ci sono caduti anche molti di coloro che si ritengono "auritiani" e che hanno confuso l'oggetto con il soggetto, colui che beneficia della "sovranità" con l'oggetto al quale si vuol attribuire questo DIRITTO. Può mai esistere un oggetto che goda del Diritto di essere Sovrano? Quindi come può esistere una Moneta Sovrana? Semmai, è il cittadino ad essere "sovrano" della sua moneta, del suo strumento convenzionale di misura e scambio dei valori. La moneta non può rappresentare sè stessa. Sono molti coloro che cadono in questa contraddizione in termini dovuta al loro analfabetismo funzionale e si fanno abbindolare da falsi profeti maestri di Programmazione Neuro Linguistica ,come i vari seguaci della MMT/MeMMT oppure di Neo-Post-Keynesiani che sono grandi estimatori dell'ABEnomics . Insomma, anche gli "auritiani" cadono spesso nel tranello di coloro che parlano di MONETA SOVRANA facendo credere che si tratti di SOVRANITA' MONETARIA. Ci scusino tali auritiani se li accusiamo di analfabetismo funzionale ed auspichiamo che tornino sulla retta via che ha tracciato Giacinto Auriti. Le prove del fallimento della Moneta Sovrana sono evidentissime e documentate in questo articolo.
<<Il Financial Times segnala che le piccole e medie imprese giapponesi si troverebbero in condizioni congiunturali piuttosto problematiche, e questo avrebbe spinto il governo di Shinzo Abe a prendere posizione, con atti amministrativi e l’abituale moral suasion nei confronti delle grandi conglomerate, affinché “diano una mano”. Sono gli effetti collaterali della struttura produttiva di un paese la cui leadership politica era convinta di aver reinventato la ruota.
In pratica, accade questo: l’aumento dell’imposta sulle vendite, dal 5% all’8%, entrato in vigore il primo aprile ad inizio anno fiscale, ha indotto una corsa agli acquisti (soprattutto di beni durevoli) nel primo trimestre solare dell’anno, con relativo mini boom che sta ora venendo puntualmente restituito, con interessi, alla realtà. Dopo un dato di Pil giapponese del trimestre aprile-giugno fortemente negativo (meno 7,1% annualizzato), l’andamento della produzione industriale resta debole, come testimonia anche il calo a sorpresa del dato di agosto.
La struttura dell’economia giapponese vede una miriade di imprese piccole e medie che sono fornitrici (e spesso sono banali terzisti) dei grandi complessi multinazionali. Questo determina una struttura fortemente duale del mercato del lavoro e dei prodotti. In pratica, l’occupazione garantita e le strutture retributive con bonus si concentrano nei grandi gruppi, mentre la flessibilità si scarica sulle piccole e medie imprese, che hanno occupazione in via di ulteriore precarizzazione ed i cui dipendenti difficilmente riescono a vedere qualcosa che ecceda la paga base.
Fatale, date queste premesse, che il potere contrattuale di questi terzisti verso i grandi gruppi tenda ad essere piuttosto limitato. Questo, tra le altre cose, si traduce nella difficoltà a traslare sui committenti i maggiori costi indotti dalla forte svalutazione dello yen, e di conseguenza in una forte compressione dei margini. Ecco quindi che il governo di Tokyo è costretto a correre in soccorso delle piccole e medie imprese che, secondo molti osservatori, starebbero ormai vivendo in condizioni di recessione conclamata. E come si fa a soccorrere le pmi, in Giappone? Sinora, in due modi. Da un lato, le agenzie governative potranno acquistare anche da imprese che non siano state costituite da almeno dieci anni (norma invero piuttosto bizzarra); dall’altro, il governo “invita” le organizzazioni industriali ed i loro associati a consentire ai propri fornitori di traslare i maggiori costi derivanti dal deprezzamento dello yen, che da luglio ha ceduto circa il 7% nominale contro dollaro.
In altri termini, si chiede ai committenti di cedere parte dei propri margini alle piccole e medie imprese boccheggianti, cioè di rinunciare al proprio potere di mercato. Idea certamente molto nobile ed illuminata, nel quadro di “fare sistema” che caratterizza il Giappone, almeno così ci viene detto da sempre. Solo che in tal modo il problema si sposta ancora più a valle, a livello di consumatore finale. Che già di suo è depresso perché al forte aumento dei prezzi al consumo non ha corrisposto l’aumento delle retribuzioni medie (soprattutto nella parte tabellare di base) e men che mai delle pensioni, visto che parliamo di uno dei paesi più anziani del mondo (ricorda qualcuno?). Da qui un circolo vizioso in cui il deprezzamento dello yen causa deterioramento del sentiment dei consumatori e progressivamente anche delle imprese.
Eppure sembrava un’idea così geniale, quella di causare un’inflazione da costi (via deprezzamento del cambio) che doveva trasformarsi in inflazione da domanda e vissero tutti felici e contenti. >>
-redazione-
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